Gli anni ’90 non sono stati granché, nonostante quello che vi raccontano i nati dopo il 1994. Ma c’è una lezione importante nascosta tra le Tartarughe Ninja e il tracollo di Craxi, una lezione che ci danno Jerry Calà e la SEGA.
Quest’estate mi è capitato un fatto assolutamente insignificante. Ero alla stazione della mia cittadina, in attesa del treno che mi avrebbe portato a Milano. Un pomeriggio pigro che stavo ingannando nella sala d’attesa condizionata. Seduto sui seggiolini lercissimi noto questa signora, poniamo sulla cinquantina, che scatarrava con la stessa sfacciataggine dei suoi lineamenti, tradivano origini sudamericane. Tra uno sputo e un allineamento del suo didietro sostanzioso vedo che fa scorrere le dita su un tablet con sguardo svaccato. Facebook? El País? Nintendoomed?
Un giochino. Uno come tanti, di quelli che fanno chiasso e ti dicono bravo pure quando hai dimostrato l’acume di un cercopiteco. Questa signora stringeva tra le mani un simbolo, quello della democratizzazione senza limiti del videogioco. Ma non mi interessa farvi una lezione su questo argomento già vecchio, e questo nostro recente articolo vi dice un paio di cose interessanti su come li videoggiuochi siano passati dall’essere divertimento per famiglie a giocattolo e poi di nuovo (più o meno) svago per tutti.
Oggi quasi tutti giocano ai videogiochi, in ogni loro forma, perfino in un paese molto chiuso a qualsiasi novità culturale come il nostro. Ma queste masse di persone, da noi che ci lecchiamo le dita con Splatoon ed Etrian Odyssey ai nostri genitori che si sollazzano con Farmville e Candy Crush Saga, non sono unite da niente e nessuno. Non esistono una o più figure che uniscano l’amore per il mondo videoludico, così come per la tv il cinema e via dicendo. Non parlo di personaggi che mettano d’accordo tutti, sarebbe impossibile, ma che permettano con la loro immagine di dare a grandi e piccini un senso di famigliarità. In Italia (e non solo) i videogiochi non hanno il loro Gerry Scotti o il loro Fellini, e non parlatemi degli youtuber che mi fate sporcare la fedina penale.
Ma c’è stato un momento, brevissimo e intensissimo, nel quale in Italia abbiamo avuto una persona che ci unisse sotto il vessillo di un controller e di una presa scart.
L’inizio degli anni ’90 era da noi la quiete prima della tempesta, l’ultima digestione dei gaudenti anni ’80 prima che la crisi monetaria del ’93 ci gettasse in una lunga e soporifera stagnazione. E in questo ultimo scampolo di felicità generale un dio della cultura pop scese dal suo Olimpo per prendere la mano a un’entità che stava uscendo dalle sue cerchie ristrette, entrando silenziosa nelle case degli italiani come la tv più di trent’anni prima. Quel dio pop era Jerry Calà, all’epoca ancora un personaggio stranoto al grande pubblico, che a suon di milioni aveva deciso di prestare il volto alla campagna di questa casa giapponese dal nome poco raccomandabile in Italia: la SEGA.
Con degli spot semplici, martellanti, capaci di offrire un concentrato strettissimo della “Jerry-calità” i proprietari di Sonic si offrono a noi col volto più tranquillizzante possibile, a botte di “ocio” e vocali apertissime. Ed è così che nonni e nipoti si ritrovano alle pendici del Natale 1992 guardando la stessa persona, sorridendo delle stesse battute e incuriositi da questo coloratissimo aggeggio capace di offrire un ventaglio sterminato di divertimento. Mai prima di allora si era visto qualcosa di così potente nel gaming, mai prima di allora gli italiani avevano visto coi loro occhi cosa fosse il gaming.
E in tutto questo Calà era convinto di quello che faceva, molto più presentabile e fattibile di certi testimonial dimenticabili. Va riconosciuto che Zenga e Mancini, gli altri assoldati da SEGA, avessero la nonchalance di Burzum in un gruppo di idol coreane, ma questo non ha importanza perché nessuno si ricorda di loro in quell’occasione. E non che questa comparsata del Jerry sia tra i punti più alti della sua carriera (a ben pensarci forse sì), ma la questione è che ha funzionato. Ha unito, ha fatto sorridere, ha permesso di aprire i cancelli di un mondo brulicante che mai come in quel momento era sull’orlo di una rivoluzione. Il pensionamento dell’8 bit, l’imminente 3D, l’ascesa del gaming portatile col Game Boy.
Se infatti oggi ci pare ovvia la diffusione schiacciante dei videogiochi da passeggio, vent’anni fa si concepivano solo come elettrodomestici da attaccare alla TV. In un mondo così teneramente primitivo, in cui la sigla NES non significava nulla per gli over 30, vedere un volto noto che parlava di videogames come fossero una merendina o un detersivo era novità assoluta. Una novità che saltava all’occhio.
Quindi sì, per tutto questo Calogero Calà, in arte Jerry, si può considerare un’icona del gaming italiano. Riconoscibile, convincente, uomo giusto al momento giusto. E in quanto tale spazzato via dal tempo, proprio come quella SEGA capace di dominare in tutto il mondo un Natale, quello del 1992, in una maniera che Nintendo avrebbe brevemente rivisto solo nel decennio successivo con quella botta di c̶u̶ genio che è stata la Wii.
L’Italia conoscerà ancora personaggi del genere? Credo di no, ne sono abbastanza sicuro. Ma mettete un 3DS in mano a Gianni Morandi e ne possiamo riparlare.